Famiglia fiorentina, che primeggia nella storia della Città ai tempi di Dante. Originaria del “Pivier d’Acone” in Val di Sieve, s’inurbò. Si ignora quando il suo capostipite sia sceso in città dal piovier d’Acone (Pd XVI 65), cioè da quel piviere d’Acone in Val di Sieve antica signoria dei conti Guidi e nel quale avevano possessi anche i Donati. La famiglia appare comunque stanziata in Firenze con sicurezza ai primi del sec. XIII. Il nome alla casata fu dato da un Cerchio, già nel 1212 appartenente al collegio dei rettori dell’Arte della Lana. Suo figlio, Oliviero o Vieri, che da due successive consorti ebbe dodici maschi e sei femmine, fondò la fortuna della famiglia creando la banca e avviando altre attività: il fondaco ricco di panni di Francia e di Fiandra, a quanto pare l’esercizio dell’usura e perfino la speculazione mediante l’acquisto dei beni confiscati agli eretici.
Dei molti figli di Oliviero sono soprattutto da ricordare: Oddarrigo, il maggiore, nel 1234 console di Por Santa Maria e dal 1246 socio del padre nella compagnia per divenirne, dal 1254 (anno della morte di quest’ultimo) fino al 1265 quando ne lasciò la direzione al fratello Cerchio, il capo; Torrigiano, padre del famoso Vieri; Umiliana (1219-1246), terziaria francescana, venerata come beata; infine un’anonima che fu la prima moglie di Corso Donati e che morì, essendo il marito podestà di Treviso, in circostanze poco chiare (si disse di veleno). Parallelamente al loro ascendere economico, i C. si trovarono inevitabilmente coinvolti nelle discordie cittadine: nel 1248 un loro palazzo fuori le mura, presso S. Ambrogio, fu distrutto; nel 1260 Torrigiano di Oliviero fu preso prigioniero a Montaperti. Ma non si deve credere a una totale dedizione della casata alla causa guelfa: mentre Torrigiano languiva prigione, il fratello suo Cerchio restava in Firenze, prendeva parte al Consiglio del comune ghibellino e guidava saldamente gl’interessi della banca.
L’atteggiamento filo-ghibellino di Cerchio e della compagnia prese comunque a evolversi, per evidenti motivi di tornaconto, in previsione dell’incombente rovina della Parte imperiale: nel 1265 la banca fece grossi affari prestando al papa e a Carlo d’Angiò e accelerando così la rovina di Manfredi. Ciò favorì, per intervento pontificio, gl’interessi mercantili dei C. in Francia, Provenza e Lombardia nonostante la scomunica che li colpiva come cittadini di un comune ghibellino.
Cerchio seppe molto abilmente portarsi durante il passaggio di poteri dai ghibellini ai guelfi: fu membro del Consiglio dei Trentasei e garante, nel novembre 1266, dei patti tra il conte
Guido Novello e il popolo. Nella prima metà dell’anno seguente, delineatasi la rottura tra grandi guelfi e popolani, i C. si appoggiarono ai primi ed ebbero in compenso l’investitura cavalleresca per alcuni membri della famiglia. Erano ormai una famiglia magnatizia.
A questo punto la società dei C. era la più grande compagnia bancaria di Firenze. Aveva interessi alla corte pontificia, in Lombardia, in Provenza, in Francia, in Inghilterra. In Toscana erano in rapporto con essa le più importanti casate, anche ghibelline: i Guidi, gli Uberti, gli Ubaldini. A poco a poco un gran numero di famiglie fiorentine si legarono agl’interessi della società e quindi ai destini della famiglia: i Macci, i Bonizzi, i Cavalcanti, più tardi lo stesso Folco Portinari padre di Beatrice; anche gli Strozzi entrarono nella loro orbita, per quanto riuscissero poi a staccarsene in tempo per non venire coinvolti nella loro rovina. La grande rappacificazione tra C. e Adimari, nata sull’onda della paura che aveva attanagliato i grandi all’indomani degli Ordinamenti di Giustizia, dette alla compagnia forza ulteriore e le trovò nuovi cointeressi da far fruttare.
La mole degli affari da curare suggerì probabilmente – non sappiamo con precisione quando: prima comunque che il penultimo decennio del secolo finisse – la scissione della società (non più solo familiare, anche se erano quasi esclusivamente membri del casato i suoi capi) in due: i C. bianchi, con a capo Lapo di Oliviero, i C. neri con a capo Bindo di Cerchio. I secondi avevano il loro centro nel sesto di Porta San Piero, il ‛ sesto dello scandalo ‘, i primi in San Procolo. Si può escludere che la scissione fosse causata da contrasti, e si deve sottolineare che l’appellativo di ‛ bianchi e neri ‘, in Italia e anche fuori abbastanza frequente per designare rami diversi della stessa famiglia, non ha alcun intrinseco valore d’inimicizia o di opposizione e tanto meno deve essere riferito all’omonima divisione politica che insanguinò Firenze qualche anno più tardi (tanto è vero che i più accesi guelfi bianchi, Vieri principalmente, appartenevano alla società dei C. neri).
L’irrompere di questi nuovi ricchi, ” salvatici ” come dice il Villani, nella scena politica della città dominata da casate di più illustri natali, non dovette piacere agli altri magnati di sangue più chiaro ma di borsa meno gonfia. ” Uomini di basso stato, ma buoni mercatanti e gran ricchi, e vestivano bene, e tenevano molti famigli e cavalli, e aveano bella apparenza ” (Compagni I 20), i C. acquistarono nel 1280, dopo la morte della contessa Beatrice vedova di Marcovaldo di Dovadola, il palazzo di fronte alla Badia (sesto di Porta San Piero, popolo di S. Maria in Campo) che i Guidi possedevano dal tempo della buona Gualdrada; nelle case dell’altro ramo della famiglia, in San Procolo, i priori – come si esprimono le Provvisioni – ” consueverant morari ” (cioè erano state prese come residenza della signoria), e infine 1’Ottokar ha dimostrato che nel decennio 1282-92 gran parte dei priori del sesto di Porta San Piero era legata alla compagnia dei Cerchi.
Le rivalità che questo rapido salire della parte selvaggia (If VI 65) poteva eccitare tra gli altri grandi furono però bruscamente troncate dall’avvento di Giano della Bella. È certo che i C. furono al centro della congiura ordita con Bonifacio VIII per chiamare in Firenze Giovanni di Châlons e rovesciare il governo popolano; d’altra parte la loro origine, e più ancora i loro interessi di mercanti e di banchieri, dovevano sconsigliare una politica di violenta rottura col popolo, e in ciò sta forse la ragione del fatto che non vediamo i C., nel luglio 1295, scendere in piazza con gli altri magnati ribelli. Ciò procurò certamente loro delle simpatie tra i popolani, ma anche ulteriori sospetti e antipatie nelle file dei grandi.
Dall’indomani della cacciata di Giano i nemici dei C. trovarono il loro centro motore nei Donati, e in particolare in Corso che disprezzava la loro rozzezza ma ne invidiava il potere economico e sapeva inoltre di avere con essi parecchi conti sospesi: la sua prima moglie, una C., che egli era sospettato di aver avvelenato; il fatto di essersi risposato con Tessa di Ubertino Caponsacchi e di averne goduto la ricca dote a dispetto dei C. e degli Ubertini, di lei parenti; e infine anche i possedimenti di campagna di C. e di Donati, confinanti, erano, almeno stando al Villani, alla radice di questa feroce inimicizia.
Le alterne vicende di questa contesa politica, familiare e personale sono assai note: il mortorio del dicembre 1296 in casa Frescobaldi finito in una rissa; l’agguato di due anni dopo ordito da alcuni Pazzi e alcuni C. che rientravano in città reduci dai loro possessi di Nipozzano con la conseguente misteriosa morte di quattro C. avvelenati – forse incidentalmente – da un migliaccio di porco servito loro nel carcere dove si trovavano per scontare la condanna riportata in seguito alla rissa; infine l’esilio comminato nel maggio 1299 a Corso per gli abusi di cui si era reso responsabile durante la compiacente podesteria di Monfiorito da Coderta.
L’esilio di Corso, per quanto non diminuisse di molto la virulenza dei Donateschi – ne è prova l’infausto calendimaggio del 1300, nel quale Ricoverino de’ C. ebbe il naso tagliato – spianò ai C. la via del potere. Il loro partito contava ormai tra i suoi seguaci fra le più grandi famiglie di Firenze, principalmente gli Adimari (meno il ramo dei Cavicciuoli), i Tosinghi della parte di Baschiera, alcuni dei Frescobaldi, quasi tutti i Cavalcanti. Ma essi non parvero, a quel punto, all’altezza della situazione: la debolezza, l’indecisione, la politica gretta e calcolatrice che troppo richiamava la loro origine mercantile, tutto ciò ne impedì la piena affermazione. Pur mostrandosi alla testa di quanti erano decisi a impedire che Bonifacio VIII stendesse sulla loro città e su tutta la Toscana la sua egemonia, si rifiutarono di prender partito con quanti – come il Compagni e lo stesso D. – reclamavano una politica più forte nei confronti della curia pontificia; intriganti e privi di scrupoli nel fare i propri interessi nella vicina Pistoia aiutando i Cancellieri bianchi, non seppero viceversa essere incisivi a Firenze; il Compagni li accusa di viltà e di avarizia per non aver saputo osare al momento opportuno e per aver, non prendendo con energia nelle loro mani le sorti della città,. trascinato alla rovina tutta la Parte bianca.
Con l’ingresso di Carlo di Valois in Firenze (novembre 1301) il potere dei C. si vanificò. Essi cercarono, tardivamente, di sfruttare i dissapori che ormai si profilavano tra il papa e il re di Francia per offrire direttamente al primo l’alta mano su Firenze ed esautorare così ‛ de facto ‘ l’incomodo paciaro, ma era troppo tardi. Cominciarono le violenze e le vendette dei Neri senza praticamente la minima resistenza da parte bianca e cerchiesca.
La riconciliazione tra C. e Donati, mediata nel dicembre dal cardinale di Acquasparta, si rivelò unatriste farsa, finita, la vigilia di Natale, in tragedia: Simone di Corso Donati uccise Nicolò dei C. e fu a sua volta trafitto da un servo.
Per quanto i C. non abbandonassero, nonostante tutto, la politica prudente (non alzarono un dito neppure per difendere l’operato di uomini della loro parte, come il Compagni e D.!), i Neri trovarono ugualmente il modo legale di colpirli: l’accusa di aver partecipato a una congiura, montata con false prove, permise al paciaro Carlo di Valois di condannare i capi della casata al disfacimento dei beni, mentre da parte sua il podestà Cante de’ Gabrielli vi aggiungeva anche alcune condanne a morte.
Cacciati, i C. cercarono dapprima rifugio ad Arezzo e poi tentarono di rientrare a Firenze con la forza ponendosi a capo dei Bianchi e dei ghibellini esuli: ma è noto come fossero politicamente e militarmente mal condotti questi tentativi e come fallissero.
I due rami della famiglia ebbero, in ordine all’esilio, destini diversi: mentre i C. bianchi poterono rientrare in città nel 1303 grazie alla mediazione pontificia, quelli ” de domo de Circulis Nigris ” compaiono insieme con D. in un documento del 2 novembre 1311 come esplicitamente esclusi dal beneficio dell’amnistia nota sotto il nome di riforma di Baldo d’Aguglione (cfr. Piattoli, Codice 106).
Le fortune del banco cerchiesco erano così fiorenti che gli stessi duri colpi inferti alla famiglia dalla vittoria dei Neri riuscirono a malapena a scalfirle. Da Arezzo, al principio dell’esilio, Vieri tenne a notificare che il banco dei C. neri avrebbe soddisfatto tutti gl’impegni con i suoi creditori; e in effetti circa ottantamila fiorini d’oro furono immediatamente sborsati a questo fine. Si diceva che Vieri si fosse portato con sé un patrimonio favoloso (seicentomila fiorini d’oro) ed è certo che, comunque stessero le cose in realtà, furono i suoi ancor ingenti mezzi economici a permettergli di mantenere presso Bianchi e ghibellini un prestigio che i suoi errori politici non potevano non aver compromesso.
I C. bianchi furono ancora più fortunati: entrati nelle grazie di Benedetto XI, si sostituirono gradualmente agli Spini, Bardi e Chiarenti nel gestire le finanze della Camera pontificia; e come mercanti della Camera sostennero anche Clemente V nei primi tempi del suo pontificato.
Le altre ricchezze di casa C. in Firenze – il fondaco, i tiratoi presso Sant’Iacopo tra’ Fossi – furono con tutta probabilità irrimediabilmente compromesse al tempo del disfacimento ordinato da Carlo di Valois e dell’esilio. Eredi dei C. furono i Canigiani; i loro poderi di Nipozzano furono assorbiti dagli Albizi.
Con l’amnistia concessa dopo la battaglia di Montecatini anche i C. poterono far ritorno in città, ma ormai non avevano più neppure l’ombra della grandezza passata. Si ha notizia di un C. presente con altri cambiatori toscani alla corte papale in Avignone nel 1327; di un altro C. abitante a Candeglia parla il Sacchetti (Trecentonovelle CCIX) dipingendolo come un povero diavolo. Il ramo di Bindaccio di Consiglio sopravvisse comunque a lungo dando quattro priori alla repubblica e quattro senatori al principato ed estinguendosi soltanto nel 1855 con Alessandro di Vieri.
L’arme della casata è, originariamente, un campo azzurro ai tre cerchi d’oro disposti 2-1; poi – come si vede per esempio in S. Croce e in una bella terracotta robbiana dei primi del Cinquecento al castello di Poppi – si carica di un lambello rosso in capo e di una croce vermiglia in campo bianco inscritta nel primo cerchio: simboli, assunti un po’ tardi, di lealismo rispettivamente guelfo (il lambello rosso angioino) e popolano (la croce vermiglia in campo bianco).
Fonte: Bernardino Barbadoro, Cerchi in: Enciclopedia italiana, 1931